Di scherzi, la nostra memoria, ne fa parecchi. Ma c’è sempre una spiegazione. Siamo continuamente bombardati da esperienze, stimoli e informazioni: profumi e colori, oggetti e presenze, ogni attimo è ricco di dati che il cervello assorbe. Tanti scivolano via, qualcuno resta: li chiamiamo ricordi e con essi possono succedere cose bizzarre. La memoria, infatti, non è affatto una macchina fotografica, ma un pentolone dove finiscono e vengono rimescolati molti ingredienti della nostra vita. Così ci capita di piangere alla vista di una sciarpa rossa perché la nonna ne aveva sempre una al collo, di rammentare eventi capitati quando eravamo piccolissimi perché ce li ha raccontati qualcun altro, di confondere i ricordi fra loro o di dimenticare qualcosa da un secondo all’altro. Anche il déjà-vu è uno scherzo della memoria: nessuna premonizione. La sensazione di aver già vissuto ciò che sta capitando per la quale tanti pensano di avere doti di chiaroveggenza è solo un bel cortocircuito della memoria.. Fotografie modificate. Molte stranezze dipendono dalla natura stessa dei ricordi, che appunto sono tutt’altro che fotografie, come spiega Stefano Cappa, direttore del Centro ricerca demenze della Fondazione Irccs Mondino di Pavia e membro della Società italiana di neurologia: «Immagazziniamo tracce di quanto viviamo, che poi ricostruiamo formando il ricordo. C’è perciò sempre una rivisitazione dell’esperienza. La fedeltà delle memorie all’episodio reale varia sulla base di tanti elementi, fra cui per esempio le emozioni provate. Se sono state intense, nel bene o nel male, è più probabile che la traccia di quanto vissuto si rinforzi e resti a lungo.
Ricordi negativi. Il ricordo però non è un film preciso di quel che è stato, anzi: quando per esempio viviamo qualcosa di molto negativo, il cervello si aggrappa ad altro e sposta l’attenzione sui dettagli. Per questo è spesso difficile recuperare i ricordi precisi di eventi traumatici». I ricordi negativi peraltro persistono meno rispetto a quelli positivi, grazie a ciò che Daniel Gilbert, dell’Università di Harvard (Usa), ha chiamato il “sistema immunitario psicologico”: un meccanismo di rimozione con cui ci proteggiamo dalle brutte esperienze, così che smettano di farci male.. Distrazioni e odori. In generale tuttavia la memoria non è una macchina da presa, ma un registratore soggetto a una miriade di interferenze, interne ed esterne. Se qualcosa ci incuriosisce, per esempio, è più probabile che lo ricorderemo. Se siamo distratti, invece il ricordo si fissa meno; per questo, se stiamo parlando al telefono mentre rientriamo a casa, è verosimile che scorderemo dove abbiamo appoggiato le chiavi. Infine, se viviamo un momento felice, e nell’aria c’è un profumo, è possibile che annusandolo di nuovo ci tornerà alla mente quell’attimo piacevole. Ciò peraltro accade anche perché, come hanno dimostrato gli studi della Harvard Brain Science Initiative (un programma di ricerca guidato dall’Università di Harvard), le aree cerebrali che elaborano gli odori sono vicinissime a quelle coinvolte nella memoria e nella gestione delle emozioni. L’olfatto, quindi, è il senso più capace di risvegliare memorie anche lontane.
Dettagli rivelatori. Gli odori non sono tuttavia gli unici dettagli a riportarci alla mente i ricordi, anche in maniera apparentemente incongrua: una canzone, un vestito, qualsiasi cosa può rivangare memorie sepolte che non hanno nulla a che vedere con il momento presente. Succede perché «non ricordiamo mai un oggetto o un elemento dell’esperienza da solo, ma sempre in un contesto», specifica Cappa; «abbiamo cioè una memoria episodica, per cui un dettaglio anche minimo presente sulla scena funziona come gancio contestuale, da cui possiamo recuperare tutta l’informazione relativa all’evento». È vero anche il contrario: siamo capaci di ricordare un dato singolo da un’esperienza (anche se questa si ripete sempre in modo più o meno uguale), o anche un nostro oggetto fra tanti simili. È il caso di quando riconosciamo l’orologio che avevamo da bambini in un mucchio di altri, o ritroviamo la macchina nel parcheggio che usiamo tutti i giorni. «Questo a volte può risultare difficile», ammette il neurologo. «Spesso però non significa che la memoria si sta inceppando: se mentre lasciavamo l’auto pensavamo ad altro, il ricordo dell’ultimo parcheggio può non farcela a emergere in mezzo a tanti ricordi simili».. Che cos’è il deja-vu. Avere la testa altrove è una delle interferenze moleste che possono alterare la capacità di richiamare una memoria, come quando incontriamo qualcuno in un posto inusuale e stentiamo a riconoscerlo perché tutto attorno ci dice che non dovrebbe essere lì. E può essere considerato una conseguenza di interferenze della memoria anche il déjà-vu: Anne Cleary, psicologa della Ohio State University (Usa), ha dimostrato che nella sensazione per cui ci sembra di aver già vissuto qualcosa non c’è nessuna premonizione, ma semplicemente ci si viene a trovare in uno scenario simile a qualcosa che ci è già successo. A livello inconsapevole il ricordo c’è, ma non riesce a emergere alla coscienza, anche se il cervello riconosce la somiglianza. Questo meccanismo ci porta a pensare di essere già stati in un posto o aver già vissuto una circostanza, senza però poter stabilire quando o perché. Il déjà vu è perciò una “metamemoria”, che può essere anche indotta. Cleary lo ha fatto in alcuni volontari, e poi ha esaminato se il déjà vu fosse veramente associato alla capacità di prevedere quel che sarebbe accaduto di lì a poco, scoprendo che aiuta a predire il futuro quanto… lanciare una monetina.. La trappola delle false memorie. Se le interferenze della memoria possono portarci a credere di vedere nel futuro, possono però alterare anche lo sguardo sul passato formando ricordi che non esistono: le false memorie. Non si tratta solo della sensazione di ricordare bene un viaggio fatto da piccoli, che magari riusciamo a rammentare solo perché abbiamo visto le foto o sentito mille volte i racconti dei nostri genitori. In alcuni casi i ricordi possono essere creati dal nulla e a metà degli anni ’90 Henry Roediger e Kathleen McDermott, due psicologi dell’Università di Washington (Usa), misero a punto addirittura un protocollo per creare false memorie, tuttora utilizzato in molti esperimenti, che fa ricordare come già sentite parole mai ascoltate. «Ci riusciamo perché la memoria fa errori facilmente e lavora sul contesto: immagazzina non solo e non tanto il suono della parola, quanto il suo significato», osserva Cappa. «In altri termini se in una lista di parole ascoltate c’è “torta” ma poi si dice “biscotto”, la traccia mnemonica immagazzinata può portare ad avere la convinta illusione di aver sentito parlare di biscotti».
La memoria degli anziani. Tutto questo è solo in apparenza un giochino innocente, perché la dimostrazione che sia possibile creare falsi ricordi ha portato a mettere in dubbio le testimonianze delle vittime di abusi in non pochi processi. Non a caso Harvey Weinstein, il produttore cinematografico hollywoodiano accusato di violenze sessuali, ha chiamato a testimoniare al suo processo una delle psicologhe più note per gli studi sui falsi ricordi, Elizabeth Loftus dell’Università della California. Secondo l’esperta la memoria umana è malleabile e manipolabile, può essere distorta a posteriori e non c’è neppure una reale possibilità di capire fino in fondo se un ricordo sia stato indotto o sia reale, a meno che di un fatto non esistano prove tangibili (e nel caso di Weinstein, viste le tante testimonianze concordi, è però difficile che si tratti di falsi ricordi collettivi). «I bambini sono particolarmente suggestionabili: è stato dimostrato che si possono portare a credere che una persona abbia detto o fatto qualcosa mai accaduto nella realtà», dice Cappa. «Succede perché il loro cervello è ancora in evoluzione: i sistemi della memoria non sono ancora stabilizzati e così le interferenze esterne, fra cui i racconti altrui, riescono a plasmare i ricordi. Un’analoga maggior sensibilità alle interferenze è stata ipotizzata anche per gli anziani, visto che la memoria inizia a perdere colpi».. La lente del presente. Un recente esperimento di Mark Lowe, psicologo della City University of London, sembra invece indicare che gli anziani abbiano la stessa suscettibilità alle interferenze di chi è più giovane e mantengano una buona precisione nella memoria episodica; hanno però più esperienze che si sono stratificate negli anni e che possono aver modificato i ricordi del passato. Quando infatti richiamiamo alla mente un fatto lontano, lo codifichiamo nuovamente, in base al momento in cui lo ricordiamo. Perciò possiamo plasmarlo nel tempo, cambiandone qualche dettaglio: i ricordi vengono consolidati quando li rammentiamo, ma nel farlo sono temporaneamente più malleabili e possono così essere rinforzati, indeboliti o anche distorti.
Questo continuo rimescolamento dei ricordi con l’esperienza reale porta a qualche discrepanza fra i fatti concreti e ciò che rammentiamo. Per questo, per esempio, confondiamo i particolari di episodi che ci sono capitati da ragazzini. Non è per forza un male, perché la possibilità di riconsolidare le memorie in maniera un po’ diversa può aiutare quando si è vissuta un’esperienza traumatica che vorremmo cancellare. Infatti non sempre è bene ricordare tutto per filo e per segno, come dimostrano le vite di chi ha una memoria di ferro: dimenticare qualcosa di spiacevole o che fa soffrire è una benedizione. E un po’ di sano oblio aiuta a non imbottirci troppo il cervello di informazioni poco utili, rischiando di dimenticare quelle essenziali..
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