Ucraina, Palestina, Israele: un escalation di morte e distruzione che sembra non poter avere mai fine. Si valutano le perdite in termini di morti, denaro e infrastrutture ma nessuno può stimare quanti progetti personali e desideri vengano annientati con la distruzione delle città. Da sempre, infatti, le conseguenze psicologiche della guerra sono incalcolabili: bambini dall’infanzia negata, adolescenti senza più sogni, adulti che all’improvviso perdono tutto ciò che hanno costruito nella vita. Soprattutto i figli.Vittime e testimoni. Molti sperimentano flashback spaventosi e realistici che fanno riemergere le terribili scene vissute, pensieri invadenti sulla loro sconvolgente esperienza, continuo stato di allarme, scarsa concentrazione, insonnia e incubi. Sono questi i sintomi del disturbo da stress post-traumatico: un forte disagio che si può presentare a ogni età dopo eventi come incidenti, disastri naturali, violenze sessuali, attentati, rapimenti o gravi malattie. Vale a dire, per effetto di circostanze che hanno messo in pericolo la vita o l’integrità fisica proprie o altrui, o che hanno messo a contatto con la morte (quando si è testimoni diretti, come succede ai parenti delle vittime o ai soccorritori).. Che cos’è il disturbo post-traumatico. Ma la violenza, in caso di guerra, per la mente è più dannosa degli eventi non provocati dall’uomo, come le catastrofi naturali. Uno studio della Washington University, per esempio, ha riscontrato che circa un terzo delle persone esposte a una sparatoria di massa può sviluppare un disturbo post-traumatico. Che la violenza delle armi lasci segni profondi lo dimostra anche una recentissima ricerca della Harvard Medical School, condotta questa volta sulle persone ferite per gravi delitti di sangue avvenuti negli Stati Uniti: i dati dimostrano che queste vittime affrontano maggiori rischi di disturbi della salute mentale e disturbi da uso di sostanze nell’anno successivo ai fatti. E si tratta di un fenomeno esteso, visto che si stima che ogni anno negli Usa 85.000 persone sopravvivano alle ferite da armi da fuoco.. Ragazzi spaesati. Anche lasciare la propria casa per salvarsi da un’aggressione armata è un’esperienza difficile da immaginare. Da uno studio della Ulster University (Irlanda del Nord) risulta che il 27% degli sfollati interni ucraini in fuga dalla guerra del Donbass del 2014 ha sviluppato un disturbo post-traumatico e il 21% una depressione. E neanche scappare all’estero evita ripercussioni psicologiche. Anzi, può avere conseguenze persino peggiori del restare a contatto con la guerra: allontanarsi dalle proprie radici e perdere totalmente il controllo sulla propria vita genera un profondo senso di incertezza. Uno studio della Wayne State University (Usa) ha riscontrato un disturbo post-traumatico in più di un terzo dei rifugiati siriani insediati negli Stati Uniti, nel 40% di loro una forte ansia e in quasi la metà segni di depressione. La sofferenza si può trasmettere per generazioni: «Il trauma può essere trasferito dai genitori ai loro figli attuali e futuri attraverso cambiamenti sottili ma ereditabili del genoma e con l’esposizione alla continua ansia dei genitori causata dall’esperienza della guerra», afferma Arash Javanbakht, psichiatra della Wayne State University.. Soldati per caso. Come se la cava poi chi nella vita faceva tutt’altro e si ritrova per le mani un fucile? È successo a molti civili che si sono arruolati o combattono come volontari per difendere la propria nazione. In un certo senso, combattere potrebbe attenuare i danni psicologici della guerra: essere attivamente impegnati per uno scopo riduce il senso di impotenza. D’altro canto, però, espone di più ad altri rischi psicologici: la mancanza di esperienza e formazione dei combattenti civili può renderli molto vulnerabili allo stress e farli sentire incapaci di gestire i momenti critici. Poi c’è la lontananza dai cari che può essere molto dura per chi la decide rapidamente per far fonte a un’emergenza e non l’ha ponderata come scelta di vita.. Persino i soldati esperti non restano psicologicamente indenni dai combattimenti, vista la continua paura per la propria incolumità, la morte o il ferimento dei compagni e l’esperienza di uccidere. Il disagio che ne deriva fu chiamato “shock da granata” durante la Prima guerra mondiale, “nevrosi di guerra” nella Seconda. Allora, era considerato un segno di debolezza. Solamente con la guerra del Vietnam le sofferenze dei veterani vennero riconosciute e ciò contribuì alla decisione di inserire il disturbo post-traumatico nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali a partire dal 1980. «Negli Usa, dal 12% al 30% circa dei veterani di guerra soffre di questo disturbo. Chi combatte può anche accusare un altro malessere chiamato “danno morale”: «Può verificarsi quando un codice morale personale (ovvero la propria comprensione di “ciò che è giusto”) viene violato», spiega la psicologa Holly Arrow, che studia gli effetti della guerra all’Università dell’Oregon. Combattere espone necessariamente ad azioni contrarie alla morale (“Non uccidere”, “Non fare ad altri quello che non vuoi venga fatto a te”), causando in alcuni casi conseguenze psicologiche durature. Tant’è che uno studio del New York Medical College ha scoperto una maggiore propensione al suicidio in veterani del Vietnam con disturbo post-traumatico che provavano senso di colpa da combattimento.. Ferite psicologiche. Ma come si superano i traumi? «La terapia cognitivo comportamentale centrata sul trauma è la più utilizzata», afferma Jennifer Wild, psicologa clinica all’Università di Oxford. In sintesi, consiste nell’incoraggiare la persona a raccontare più volte l’evento traumatico e ad affrontare gradualmente situazioni che suscitano paura, fino a quando la risposta emotiva si attenua. Questa terapia è efficace anche per trattare il danno morale dei combattenti: «Può ridurre la depressione così come i pensieri legati al senso di colpa e alla vergogna», afferma Arrow. Chiaramente, in Paesi impoveriti e devastati dalla guerra è impensabile fornire un’adeguata assistenza sanitaria di questo tipo (si può contare su alcune organizzazioni umanitarie, pur con grande difficoltà a causa del vasto numero di persone colpite e sfollate). Quindi, molte ferite psicologiche dovranno autorimarginarsi, con il tempo. Una ricerca dell’Università di Amsterdam ha riscontrato in soldati al ritorno dall’Afghanistan (ma senza disturbo post-traumatico) un’iperattivazione dell’amigdala (un’area del cervello che regola la paura) che, però, in genere si normalizzava dopo circa 18 mesi.. Il senso di colpa dei sopravvisuti. Non tutto passa così in fretta, soprattutto se si vive in una nazione distrutta: molti dovranno superare il senso di perdita della loro vita precedente ed elaborare lutti, alcuni proveranno una paura paralizzante anche quando saranno al sicuro. E c’è chi avvertirà il cosiddetto “senso di colpa del sopravvissuto”, la dolorosa sensazione di essere, ingiustamente, dei privilegiati rispetto a chi non ce l’ha fatta. Alcuni sintomi di sofferenza potranno persistere per molti anni e sarà determinante l’aiuto reciproco: «Se le vittime delle guerre, si sostengono a vicenda, sarà il supporto sociale a fare da cuscinetto», afferma McKinnon. Qualcuno potrà anche avere una “crescita post-traumatica”, una faticosa evoluzione personale dopo aver attraversato forti avversità, teorizzata dagli psicologi americani Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun. Come spiega Tedeschi: «Le persone sviluppano una nuova comprensione di se stesse, del mondo in cui vivono, di come relazionarsi con gli altri, del futuro che potrebbero avere e di come vivere la vita». Con il tempo e un grande sforzo, dunque, si può rinascere da un trauma. Anche da quello della guerra..
Il disturbo da stress post-traumatico colpisce molte delle vittime di guerra e le conseguenze sulla psiche sono molto pesanti. E riprendersi è lungo e difficile.
Ucraina, Palestina, Israele: un escalation di morte e distruzione che sembra non poter avere mai fine. Si valutano le perdite in termini di morti, denaro e infrastrutture ma nessuno può stimare quanti progetti personali e desideri vengano annientati con la distruzione delle città. Da sempre, infatti, le conseguenze psicologiche della guerra sono incalcolabili: bambini dall’infanzia negata, adolescenti senza più sogni, adulti che all’improvviso perdono tutto ciò che hanno costruito nella vita. Soprattutto i figli.Vittime e testimoni. Molti sperimentano flashback spaventosi e realistici che fanno riemergere le terribili scene vissute, pensieri invadenti sulla loro sconvolgente esperienza, continuo stato di allarme, scarsa concentrazione, insonnia e incubi. Sono questi i sintomi del disturbo da stress post-traumatico: un forte disagio che si può presentare a ogni età dopo eventi come incidenti, disastri naturali, violenze sessuali, attentati, rapimenti o gravi malattie. Vale a dire, per effetto di circostanze che hanno messo in pericolo la vita o l’integrità fisica proprie o altrui, o che hanno messo a contatto con la morte (quando si è testimoni diretti, come succede ai parenti delle vittime o ai soccorritori).. Che cos’è il disturbo post-traumatico. Ma la violenza, in caso di guerra, per la mente è più dannosa degli eventi non provocati dall’uomo, come le catastrofi naturali. Uno studio della Washington University, per esempio, ha riscontrato che circa un terzo delle persone esposte a una sparatoria di massa può sviluppare un disturbo post-traumatico. Che la violenza delle armi lasci segni profondi lo dimostra anche una recentissima ricerca della Harvard Medical School, condotta questa volta sulle persone ferite per gravi delitti di sangue avvenuti negli Stati Uniti: i dati dimostrano che queste vittime affrontano maggiori rischi di disturbi della salute mentale e disturbi da uso di sostanze nell’anno successivo ai fatti. E si tratta di un fenomeno esteso, visto che si stima che ogni anno negli Usa 85.000 persone sopravvivano alle ferite da armi da fuoco.. Ragazzi spaesati. Anche lasciare la propria casa per salvarsi da un’aggressione armata è un’esperienza difficile da immaginare. Da uno studio della Ulster University (Irlanda del Nord) risulta che il 27% degli sfollati interni ucraini in fuga dalla guerra del Donbass del 2014 ha sviluppato un disturbo post-traumatico e il 21% una depressione. E neanche scappare all’estero evita ripercussioni psicologiche. Anzi, può avere conseguenze persino peggiori del restare a contatto con la guerra: allontanarsi dalle proprie radici e perdere totalmente il controllo sulla propria vita genera un profondo senso di incertezza. Uno studio della Wayne State University (Usa) ha riscontrato un disturbo post-traumatico in più di un terzo dei rifugiati siriani insediati negli Stati Uniti, nel 40% di loro una forte ansia e in quasi la metà segni di depressione. La sofferenza si può trasmettere per generazioni: «Il trauma può essere trasferito dai genitori ai loro figli attuali e futuri attraverso cambiamenti sottili ma ereditabili del genoma e con l’esposizione alla continua ansia dei genitori causata dall’esperienza della guerra», afferma Arash Javanbakht, psichiatra della Wayne State University.. Soldati per caso. Come se la cava poi chi nella vita faceva tutt’altro e si ritrova per le mani un fucile? È successo a molti civili che si sono arruolati o combattono come volontari per difendere la propria nazione. In un certo senso, combattere potrebbe attenuare i danni psicologici della guerra: essere attivamente impegnati per uno scopo riduce il senso di impotenza. D’altro canto, però, espone di più ad altri rischi psicologici: la mancanza di esperienza e formazione dei combattenti civili può renderli molto vulnerabili allo stress e farli sentire incapaci di gestire i momenti critici. Poi c’è la lontananza dai cari che può essere molto dura per chi la decide rapidamente per far fonte a un’emergenza e non l’ha ponderata come scelta di vita.. Persino i soldati esperti non restano psicologicamente indenni dai combattimenti, vista la continua paura per la propria incolumità, la morte o il ferimento dei compagni e l’esperienza di uccidere. Il disagio che ne deriva fu chiamato “shock da granata” durante la Prima guerra mondiale, “nevrosi di guerra” nella Seconda. Allora, era considerato un segno di debolezza. Solamente con la guerra del Vietnam le sofferenze dei veterani vennero riconosciute e ciò contribuì alla decisione di inserire il disturbo post-traumatico nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali a partire dal 1980. «Negli Usa, dal 12% al 30% circa dei veterani di guerra soffre di questo disturbo. Chi combatte può anche accusare un altro malessere chiamato “danno morale”: «Può verificarsi quando un codice morale personale (ovvero la propria comprensione di “ciò che è giusto”) viene violato», spiega la psicologa Holly Arrow, che studia gli effetti della guerra all’Università dell’Oregon. Combattere espone necessariamente ad azioni contrarie alla morale (“Non uccidere”, “Non fare ad altri quello che non vuoi venga fatto a te”), causando in alcuni casi conseguenze psicologiche durature. Tant’è che uno studio del New York Medical College ha scoperto una maggiore propensione al suicidio in veterani del Vietnam con disturbo post-traumatico che provavano senso di colpa da combattimento.. Ferite psicologiche. Ma come si superano i traumi? «La terapia cognitivo comportamentale centrata sul trauma è la più utilizzata», afferma Jennifer Wild, psicologa clinica all’Università di Oxford. In sintesi, consiste nell’incoraggiare la persona a raccontare più volte l’evento traumatico e ad affrontare gradualmente situazioni che suscitano paura, fino a quando la risposta emotiva si attenua. Questa terapia è efficace anche per trattare il danno morale dei combattenti: «Può ridurre la depressione così come i pensieri legati al senso di colpa e alla vergogna», afferma Arrow. Chiaramente, in Paesi impoveriti e devastati dalla guerra è impensabile fornire un’adeguata assistenza sanitaria di questo tipo (si può contare su alcune organizzazioni umanitarie, pur con grande difficoltà a causa del vasto numero di persone colpite e sfollate). Quindi, molte ferite psicologiche dovranno autorimarginarsi, con il tempo. Una ricerca dell’Università di Amsterdam ha riscontrato in soldati al ritorno dall’Afghanistan (ma senza disturbo post-traumatico) un’iperattivazione dell’amigdala (un’area del cervello che regola la paura) che, però, in genere si normalizzava dopo circa 18 mesi.. Il senso di colpa dei sopravvisuti. Non tutto passa così in fretta, soprattutto se si vive in una nazione distrutta: molti dovranno superare il senso di perdita della loro vita precedente ed elaborare lutti, alcuni proveranno una paura paralizzante anche quando saranno al sicuro. E c’è chi avvertirà il cosiddetto “senso di colpa del sopravvissuto”, la dolorosa sensazione di essere, ingiustamente, dei privilegiati rispetto a chi non ce l’ha fatta. Alcuni sintomi di sofferenza potranno persistere per molti anni e sarà determinante l’aiuto reciproco: «Se le vittime delle guerre, si sostengono a vicenda, sarà il supporto sociale a fare da cuscinetto», afferma McKinnon. Qualcuno potrà anche avere una “crescita post-traumatica”, una faticosa evoluzione personale dopo aver attraversato forti avversità, teorizzata dagli psicologi americani Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun. Come spiega Tedeschi: «Le persone sviluppano una nuova comprensione di se stesse, del mondo in cui vivono, di come relazionarsi con gli altri, del futuro che potrebbero avere e di come vivere la vita». Con il tempo e un grande sforzo, dunque, si può rinascere da un trauma. Anche da quello della guerra..